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SARTO PER SIGNORA

  • Immagine del redattore: foglia grafica ventodistrada
    foglia grafica ventodistrada
  • 22 gen 2016
  • Tempo di lettura: 2 min

Emilio Solfrizzi

L'altro ieri all'Alfieri. Per mandare giù rosponi come la delusione feroce per un uomo ipocrita, superficiale e idiota che non sa scegliere tra essere stronzo o succube della propria ombra. La violenza del tradimento, la superficialità dell'ignoranza, la precarietà della paura si mischiano nella maschera grottesca di un personaggio indolente che sparisce nella logorrea delle proprie parole. Neanche lui le capisce, sono sconnesse, inutili, eppure se ne fa ventaglio come un cicisbeo, cercando di convincere di essere vittima degli eventi.

La rabbia serpeggia, il senso sfugge. Ma le risate nascono stocastiche come dal cuore, anzi come il rifiuto del velo frizzante di muffa acida che sembra posartisi addosso nel seguire il suo vaniloquio.

La retorica bigotta della sua montatura sconfina nell'impotenza me la sua mediocrità trova l'appoggio nel torbido degli uomini che lo circondano, tra la stupidità e il menfreghismo.

Ne esce una donna insoddisfatta, fragile, disillusa, che deve rinunciare ad ammirare l'uomo, che non può che rassegnarsi alla sua incapacità. Le rimangono i vestiti, gli ambienti, la parvenza di una passerella in società che fa capolino dal pubblico, al di là della quarta parete. Ma non trova il rispetto per amare.

E' il ritratto del pensiero debole in corpi che non hanno il controllo di se stessi, di vittime di un fanatismo ipocrita che sa di omertà mafiosa e di apparenza che inganna.

La sensazione che ne emerge è di inutilità, oltre che di reificazione.

L'impressione che siano sempre altri a decidere e che le tracce della dignità si perdano nell'ignoto lascia l'amarezza per un posseduto insignificante, che non sostiene la voglia di vivere.

E' così che la disperazione per un'astinenza sfortunata procastinata all'infinito dagli equivoci si specchia nella farsa di un lavoro che sa di incompiuto e spedisce a vivere il reale nel pragmatico e a dimenticare l'ozio distruttivo del semplice "stare a guardare". Ma ci si chiede allora, perché andare a teatro per vedere l'insignificanza?

Perché nel nichilismo di quell'insulsaggine è imbottita la trasgerssione dell'ironia, quel gusto per sdrammatizzare che nell'oscurità della passione tradita è difficile ricordare, che nella tristezza del quotidiano corroso dalle offese di fanatici rinunciatari che cercano di sostenersi assecondando la corruzione, che sperano di divertrsi scimmiottando la supponenza degli eroi televisivi che disgustano maliziosamente nella spasmodica ricerca di un po' di celebrità, accorgersi per un attimo che tutto ciò è ridicolo aiuta a tirare un sospiro di sollievo.

Per una sera, a teatro, è possibile, come diceva il buon vecchio Aristotele, catarsi, uscire dalle maglie della propria immagine e sperare di poter cambiare il proprio assetto sociale. Il mistero del fascino della rappresentazione pare come un angelico sponsor che solletica l'ispirazione.

Allora la donna organizza e si espone al proprio ruolo, si responsabilizza e trova in se stessa l'equilibrio per non dipendere dall'uomo e accettarlo con le sue debolezze.

E nel finale si ricompone l'assetto iniziale, senza storia. I personaggi sono come granelli di sabbia dell'infinito e l'esperienza individuale maschera la delusione per il distacco. La loro non-esistenza teatrale si proietta come una allegra consolazione su quella impersonale del pubblico, il quale solo allora smette di essere passivo e nel momento in cui torna sui passi della propria vita, porta con sè un piccolo seme di perplessità che può trasformarsi in emancipazione . Nonostante la fiacchezza.


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